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Casa
in via Roncrio

La
semiprigionia
Avremmo potuto sposarci,
se le cose fossero andate per il verso giusto. Ci scambiammo due fedi
d'oro nella solitudine della nostra camera da letto, perché il
matrimonio aveva valore nei nostri cuori. Non m'importava la cerimonia
in sé. Ma Horst sentiva il desiderio di tutelarmi in una situazione
nella quale avrei perso facilmente ogni diritto a partire da quello dell'abitazione.
Diceva sempre, che per il maschilismo della legge e per la mentalità
di certuni, alle donne conviventi non sono riconosciuti gli stessi diritti
delle donne sposate...
Diceva che Maria, aveva spesso avuto dei problemi ad entrare a colloquio
con il suo compagno, Libero, perché non erano sposati davanti alla
legge. Erano passati tanti anni da allora, ma le discriminazioni verso
coloro che non regolarizzano i loro rapporti dinnanzi al prete o allo
stato, non sono di certo terminate.
Andammo a vivere "a singhiozzo" al terzo ed ultimo piano di
quella palazzina che era stata costruita da suo padre, in via di Roncrio.
La palazzina è composta da tre piani; ha le scale esterne tuttora
senza una illuminazione adeguata, l'ultima rampa è una vera scommessa
contro la legge di gravità, ed era per noi abbastanza scomodo ed
assai faticoso, portare su dei mobili o la spesa; ma eravamo ripagati
dal luogo dove vivevamo, dalla bellezza del bosco sul retro della casa
e soprattutto dalla felicità di avere un "nido" tutto
nostro.
Il nostro sole sorgeva e tramontava dietro le colline. Non aggrediva mai
direttamente la casa, nemmeno in estate.
Nei giorni di pioggia, era tutto buio.
Dalla finestra della nostra camera da letto ci incantava la vista degli
alberi; un fitto intreccio di rami schermava la luce.
Quando si spogliavano delle loro foglie e restava soltanto l'edera a ricoprire
i tronchi, contro il cielo azzurro pallido si potevano vedere chiaramente
gli scoiattoli che danzavano con grazia da un ramo all'altro.
Un altro spettacolo era la fioritura delle primule e dei ciclamini nel
bosco, all'inizio della primavera.
Svegliarmi con Hosti accanto era sempre più bello, ma la cornice
era ancora più bella di tutti i sogni ad occhi chiusi o aperti.
Lui amava profondamente quel luogo, si vantava del "verde" che
ci circondava, guardava fuori e... tossiva, con la sigaretta in bocca.
Capivo che stava fumando, anche quando ero fuori a pulire e curare le
piante. "Fuma, fuma, che ti fa bene!".
Rideva. Mandava di traverso il fumo, ma rideva di gusto, con la pancia.
Io lo mordevo.
A volte giocavamo veramente come bambini, ci sputavamo in faccia, ci tiravamo
addosso i cuscini con tutta la forza, facevamo la lotta sul letto e lui
era felice di immobilizzarmi le braccia e di farmi vedere chi era il più
forte.
... In realtà,
la nostra vita era durissima.
Facevo sempre la spola tra Bologna e Firenze, per poter stare sia con
lui che con mio figlio. Lui usciva e rientrava ogni giorno, tranne i giorni
festivi quando chiedeva la licenza per trascorrere una notte a casa e
tuttavia, durante quei permessi, aveva l'obbligo della "firma"
in questura.
Da maggio 2001 lavorava come magazziniere all'Altercoop di Bologna, una
ditta che si occupa di carta riciclata.
Non era stato facile nemmeno trovargli questo lavoro, evidentemente non
era il massimo per un uomo della sua età, ma la promessa per un
lavoro come programmatore di computer non era stata mantenuta.
Il primo ed unico Natale (quello del 2000) che trascorremmo insieme, andammo
a prendere un abete alla Fiera di Santa Lucia, per poterlo addobbare.
Si mise l'abete in spalla e lo portammo in autobus.
S'innamorò anche di un piccolo abetino di plastica che funzionava
a pile, e che cantava "Jingle Bells". Era un capriccio, ma perché
non esaudirlo? Prendemmo anche quello.
Chi l'avrebbe mai detto, che dopo un anno qualcuno si sarebbe preoccupato
di buttarlo nell'immondizia per farci dispetto...
Passammo tutta la notte a ridere, mentre guarnivo l'albero con decorazioni,
stelle, palle, fiocchi e angioletti.
I suoi occhi brillavano. Sembrava che avesse la febbre.
Provavo una grandissima gioia nel vederlo così felice. Anche se
i vicini vennero da noi il giorno dopo a protestare per il chiasso, era
stato bello e mi rendevo conto di quanto il Natale gli fosse mancato là
dentro.
Ero attentissima a non cadere dalla sedia, mentre le mie mani erano impegnate
ad attaccare decorazioni, e le sue ad accarezzare le mie gambe...
Iniziammo ad arredare casa, con l'aiuto di un amico antiquario, che fu
veramente carino con noi. Trovammo il nostro primo frigorifero grazie
a due compagni, due belle poltrone grazie a un'amica, un vecchio televisore
non so dove. Era evidente che spendevamo anche tanto per sistemare la
nostra casa, ma le maggiori soddisfazioni ci venivano date da questi gesti
di generosità assolutamente spontanei.
Suo figlio ci regalò una bicicletta e ci portò una libreria,
che riempimmo con dei libri d'arte ricevuti in regalo dall'Altercoop.
Tornavo da Firenze ogni volta con degli oggetti per la nostra casa, con
dei regalini per lui, con la spesa.
Ogni notte prima di andare a letto, accendevo candele ed incensi, per
fargli trovare la casa profumata e illuminata al suo rientro. Quando potevamo
trascorrere una notte insieme, per me era una felicità indescrivibile.
Ormai si aspettava queste attenzioni, non erano più sorprese ma
stavano diventando la nostra particolare consuetudine.
Per la festa di Halloween intagliai ed illuminai una grande zucca arancione,
immaginando la sua gioia nel vederla, rientrando.
"Non ho mai avuto una zucca di Halloween, non sapevo neanche cosa
fosse!".
Ma anche lui aveva mille attenzioni per me, quando cominciò ad
uscire in semilibertà tornava a casa la mattina presto per poter
trascorrere un'ora insieme, prima del lavoro. Era una bella fatica, il
carcere si trovava molto lontano da casa. Non avendo la macchina, usava
la bicicletta o l'autobus.
Usciva dal carcere alle 6 del mattino. Alle 6 e mezza o appena un po'
più tardi lo vedevo arrivare. Tornava su per quelle scale maledette,
con il giornale e un vassoietto con due brioches. A volte le brioches
e i croissants erano più di due, inutilmente lo rimproveravo chiedendogli
perché sprecare tutto quel ben di dio, ma era convinto di farmi
felice. Mi diceva che si era fermato apposta, che i commessi della pasticceria
erano gentili con lui.
Gli preparavo il caffè o la cioccolata in tazza e restavamo in
silenzio a fare colazione, con una sbirciata ai titoli del giornale.
Insieme al giornale mi riempiva il tavolo di supplementi e di CD di musica
in offerta con le varie riviste.
Accarezzavo il suo volto, era stanco. Gli dicevo che avrebbe dovuto riguardarsi
perché il suo lavoro era troppo pesante. Insistevo affinché
mangiasse qualcosa per tenersi su, ma diceva di non avere fame. Era dimagrito
un po' troppo, scuotevo la testa. Avrei voluto chiedergli tante cose,
ma non c'era il tempo.
S'incazzava se c'erano dei bicchieri sporchi nell'acquaio o le sigarette
nei portaceneri, perché voleva tutto a posto.
Mi dava degli ordini sulla cena da preparare, ma poi facevo sempre di
testa mia. Era ovvio che dovevo fare i conti col portafoglio, ma non con
la mia fantasia.
All'ora di pranzo mi avrebbe telefonato dal lavoro per informarsi se avevo
mangiato, e alle cinque del pomeriggio quando era di nuovo a casa mi avrebbe
chiesto cos'avevo fatto, se i pantaloni erano stirati, e cosa bolliva
in pentola. Si entusiasmava per niente, sapevo di farlo felice quando
trovava il ragù a sobbollire nel tegame o una frittata di patate
sul piatto.
Era schietto, semplice, talvolta sgarbato, puntiglioso ed esigente, ma
con un cuore immenso e sempre pieno d'attenzioni...
Qualche avvoltoio ha poi insinuato che prendeva il Viagra per soddisfare
le mie voglie, e che forse proprio questo ha accellerato la sua morte.
Ma non era vero. Non avevamo affatto bisogno del Viagra. Non c'era niente
che non ci funzionasse, a parte la testa.
Brano
tratto da “L’ultimo colpo di Horst Fantazzini” di Pralina
Diamante, Stampa alternativa, collana Eretica, 2003
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